Dentro le Mura di Olevano Romano
La storia del castrum Olibani inizia in tempi antichi, quando tra l’874 e l’877 d.C., per sfuggire alle scorrerie dei Saraceni insediatisi nel Lazio, gli olevanesi e gli abitanti delle campagne vicine si rifugiarono sul monte che meglio permetteva loro la difesa, dando così origine all’abitato di Olevano.
Il castello, situato su un’altura rocciosa alla cui sommità sorge la rocca, era circondato da mura difensive che consentivano la difesa ed il controllo del territorio. Al loro interno si erigevano gli edifici del potere, il palazzo della Curia antistante la piazza, i luoghi sacri (primo tra tutti la chiesa di Santa Margherita, che doveva trovarsi in prossimità del palazzo della Curia), le case (per le quali si pagava un censo annuo) e le stalle per le bestie. L’accesso al paese era possibile solo attraverso le tre porte, in corrispondenza delle vie principali; chiunque trasgredisse la norma era punito con un’ammenda di cinque soldi.
Il nome del nostro paese è tuttavia legato indissolubilmente a quello dei Colonna, che ne divennero proprietari e domini sin dai primi anni del XIII secolo e restarono tali sino alla metà del XIV secolo, quando passò sotto la giurisdizione del Comune di Roma: fu in questo periodo che vennero promulgati gli statuti comunali.
La Curia Romana, pertanto, vero ed unico Signore, formata da diversi ufficiali eletti o nominati, doveva curare gli interessi della comunità, amministrando e giudicando. Essa era inoltre proprietaria di beni, vigne, boschi, campi e mulini, che dava a lavorare alla quarta soltanto agli abitanti del castello, purché questi le potessero lavorare bene e comodamente.
La popolazione era divisa tra nobiles e pedites. I primi traevano le loro ricchezze direttamente dalla terra; essi, infatti, assegnavano annualmente alle famiglie di vassalli, secondo un rapporto di fedeltà, gli appezzamenti di terreno da seminare, in cambio di una pensio di sei soldi. L’area da coltivare era detta “quarto”, per il fatto che veniva seminata ogni quattro anni. Essendo educati all’uso delle armi, potevano prestare il loro servizio a qualsiasi signore come cavalieri di ventura, ricevendo da questo uno stipendium, purché il signore non fosse nemico di Roma. Analogamente, in caso di pericolo o di guerra, i nobili era tenuti a cavalcare alla testa degli altri abitanti contro il nemico; qualora il cavallo fosse stato ucciso o avesse ricevuto danni, l’autorità stessa emendava il danno.
I pedites costituivano invece la parte più cospicua della popolazione. Essi lavoravano per lo più come contadini le terre della Curia, dei nobili o della Chiesa, di cui erano tenuti a versare la quarta parte di tutti i beni coltivati. Per le restanti parti di prodotto, gli statuti garantivano la libertà di esportare, sine aliqua licentia, qualsiasi tipo di mercanzia, previa il pagamento del plazzaticum, secondo la consuetudine. Avevano la casa concessagli dai nobili, unita ad un orto e alla canapaia, che dovevano essere grandi quanto una rublitella seminis ad seminandum. Tali terreni erano esenti dal prelievo signorile; tuttavia la casa, l’orto, la canapaia e la vigna potevano essere venduti a chiunque, eccetto alla Chiesa o ai nemici del signore: in questi casi il signore percepiva la quarta parte dei frutti. Altra attività che i pediti svolgevano era l’allevamento del bestiame, che potevano far pascolare gratuitamente nelle terre di Olevano, Pusano e Belvedere.
Alla popolazione si affiancavano le istituzioni, nelle persone del sindaco Cola Ferrario (doveva sindacare sull’operato del castellano e degli altri ufficiali della Curia), del castellano Pietro (rappresentava l’autorità di Roma e amministrava la giustizia), dei pacieri (dovevano pacificare i discordi), dei connestabili (dovevano dare pareri e consigli alla Curia, amministrando i beni pubblici), dei balivi e dei custodi (erano i poliziotti del XIV secolo), dei sovrintendenti (stabilivano il prezzo delle carni vaccine) e del notaio del castrum.